Puglia Restaurants

L’auspicabile ritorno delle trattorie

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Dopo l’escalation della cucina patinata, sarebbe il caso di riscoprire l’autentica cucina regionale. Quella dei cosiddetti piatti poveri. Vestigia di tradizioni secolari. Seguendo l’esempio di tre illustri cuochi pugliesi

Francesco Zompì

Da anni, ormai, assistiamo a una progressiva escalation di una forma di cucina che si potrebbe definire patinata, spesso affidata a cuochi/e non importa se bravi/e purchè telegenici/he, costruita su preparazioni a base di ingredienti dalla provenienza esotica e di improbabili accostamenti; ne vengono fuori piatti che hanno una loro validità solo se frutto di mani sapienti e che, invece, denotano limiti paurosi quando, a occuparsene, sono dozzinali spadellatori, ma con tanto di nome e cognome ben visibile sulla giacca immacolata. Vittima, ahinoi, designata di tanta euforia è stata la Cucina Italiana, che ha seriamente rischiato di rimanere travolta da questa pericolosissima deriva creativa (dove la creazione sta nell’inventare qualcosa cui nessun altro ha pensato prima, a prescindere dal risultato finale).

I ristoranti pluristellati che propongono i grandi classici della tradizione gastronomica regionale si contano sulle punte delle dita di una mano, e ne avanzano pure; fatta eccezione per alcuni grandi Chef (mi viene in mente la famiglia Santini, che, anche dopo aver conquistato la terza stella, ha continuato a proporre alcuni dei piatti storici della tradizione mantovana come il sorbir d’agnoli, o i tortelli di zucca o il risotto al pesce gatto), è pressocchè impossibile trovare, nei menu stellati dell’intera Penisola, piatti meravigliosi come la tagliatella al ragù, o la coda alla vaccinara, o le sarde a beccafico, o, per rimanere nei confini regionali, le fave e cicorie, la pasta e ceci e gli gnummarieddhi (o in qualunque altro modo li si voglia chiamare).

La cucina regionale, assente dalle tavole apparecchiate con tovagliati di Fiandra, candele e fiori, è, però, rimasta presidio assoluto delle tovaglie quadrettate della Trattoria, intesa come luogo di memoria e di conservazione della autentica cultura culinaria popolare.

Anche se, non va nascosto, dietro insegne dove abbondano le parole “gusto”, “sapore”, “osteria” “vecchio”, “antico” e compagnia cantante, si nascondono, a volte, vere e proprie trappole acchiappaallocchi e si scopre che la “antica osteria” è stata magari inaugurata l’altro ieri e che la “cucina di nonna Peppina” propone, tra l’altro, la mai troppo vituperata tagliatella panna prosciutto e piselli.

Su questo terreno, bisogna ammetterlo, il Centro Nord è stato più attento di noi; lì, i custodi della tradizione gastronomica popolare sono rimasti indenni allo tsunami della nouvelle cuisine (e dei suoi successori); il Piemonte, l’Emilia, la Romagna, il Lazio hanno conservato intatti i luoghi della tradizione; non c’è paese, frazione, borgata, in cui non si possa mangiare il bollito, il vitello tonnato, i tortellini in brodo, i cappelletti, e l’abbacchio a scottadito. In Meridione, in Puglia in particolare, invece, abbiamo trascorso anni, decenni, in cui sembrava impossibile mangiare, fuori di casa, una tiella comecristocomanda, o un piatto di orecchiette con la braciola.
Per fortuna, qualcuno, a partire dagli anni ’80, ha invertito la tendenza e ha iniziato a riproporre i cosiddetti piatti poveri (che tali sono solo, forse, per i costi della materia prima, ma non certo per la qualità degli ingredienti e per la perfezione del risultato finale), vestigia di tradizioni secolari.
Qualche nome è d’obbligo.

Innanzitutto Pietro Zito, il primo ad aver capito che si poteva fare alta ristorazione senza cambiare nulla di quanto è stato tramandato da generazioni, che ha fatto, della sua osteria nelle campagne a ridosso di Castel del Monte (“Antichi Sapori”, mai, come in questo caso, nome poteva essere più appropriato), un vero e proprio monumento della cucina pugliese, divenuta meta di turisti di tutte le parti del mondo. A un certo punto del percorso, il placido Pietro ha dato corpo a due iniziative apparentemente contraddittorie: potremmo definirle il metro zero e il chilometro 10.000. Ha creato un orto di un paio di ettari praticamente a ridosso del ristorante (dove ha recuperato anche ortaggi e verdure quasi in via di estinzione e ha messo a dimora le erbe spontanee dell’Alta Murgia e da cui trae il 90 per cento della materia prima utilizzata in cucina) e, contestualmente, ha aperto un clone del suo locale (stesso arredamento, e, ovviamente, stessi piatti) addirittura nel centro di Tokio, vale a dire nella città più antitetica possibile della sua idea di cucina.
Altri nomi. Verso la metà degli anni ’90, Lillino Silibello apre il Cibus a Ceglie Messapica, e si impone immediatamente per la maniacale attenzione nella scoperta e nella selezione delle materie prime, dai formaggi all’olio ai salumi e via discorrendo; se osate, potrete vedervi arrivare in tavola un cacio- cavallo podolico di 6 o 7 anni di invecchiamento, praticamente ai limiti della edibilità; un’esperienza sensoriale che potrebbe pro- vocare visioni mistiche.
Più di recente, Stefano D’Onghia, che, reduce da un’esperienza nel settore dell’abbigliamento, un bel giorno ha riscoperto la sua vera anima e ha aperto “Botteghe Antiche”, nella piazza di Putignano, centro, appunto, dei vecchi negozietti tipici della prima metà del secolo scorso, dove propone, al meglio, i piatti della tradizione familiare, magari con un pizzico di innovazione personale, che però non ne tradisce essenza e soprattutto sapore.
L’elenco potrebbe continuare, ma sicuramente non tanto quanto dovrebbe; è molto più facile che un giovane cuoco che compia il grande passo del mettersi in proprio sia più attratto da una cucina moderna, scopiazzata dai libri griffati dagli chef più rinomati, piuttosto che riprendere i piatti delle madri e delle nonne; il pubblico ha capito perfettamente che il futuro sta nel passato; è auspicabile che lo capiscano anche coloro i quali il futuro stanno iniziando a viverlo.

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