Si tratta senza dubbio di una delle azioni più difficili che esistono. Azione eminentemente interiore. Poco attinente – strano a dirsi – all’altro. Azione a tratti agonica, nella sua dimensione di strenuo combattimento contro il dolore che reclama giustizia, o addirittura può degenerare in vendetta. La lingua latina ne sottolinea il valore di «dono» al grado superlativo, mentre quella greca restituisce l’azione di «lasciar andare», presupponendo di fatto il male ricevuto.
Ma perdonare ha una radice ancora più profonda: la presenza dell’altro dentro di sé. Non si perdona se non chi – in un modo o nell’altro – è entrato nel cuore. Anche con strumenti di tortura. Anche chi fa del male stabilisce con l’altro una relazione profondissima. A tal punto che essa diventa indelebile. Gli cambia la vita, in modo analogo (ma non uguale) a chi glie la cambia amandolo.
Per questo, nel bene e nel male il perdono presuppone una relazione forte, incancellabile. Una relazione che richiama alla scelta di rispondere amando (volendo il bene) o odiando (volendo il male) dell’altro. Questa scelta ha a che fare col perdono. Che di fatto è riconoscere la presenza dell’altro nel cuore senza il desiderio di cacciarlo violentemente da esso. Ma attenzione: non si caccia se non chi è già presente!
La giovanissima Maria Goretti urlava al suo as
sassino che la colpiva a morte: «Che fai Alessandro? Tu così vai all’inferno…». Era più preoccupata della “morte” dell’altro che non della sua. Ma chi era per lei Alessandro? Perché la preoccupazione così forte di un’azione per lui pericolosa? Quel pericolo era vissuto come se fosse il suo. Tanto che sul letto di morte diceva: «per amore di Gesù gli perdono; voglio che venga con me in Paradiso».
Non si tratta di essere giusti o ingiusti – questo lo lasciamo a Dio – ma di riconoscere la presenza dell’altro (e la legittimità della stessa) nel proprio cuore. Tu hai il diritto di stare nel mio cuore, perché sei fratello, sorella! Nessuno può alienare questo diritto. Nessuno può cacciarti. Neanche io ho il diritto di farlo. Chi lo facesse imiterebbe il fratricida Caino che alla domanda di Dio si sentì in diritto di rispondere: «sono forse il custode di mio fratello?» (Gen 4,9).
Perciò il perdono dice: non voglio perderti. Tengo a te. Nonostante il male. Nonostante le imperfezioni. Perdonare è riconoscere: siamo insieme, siamo tralci della stessa vite, membra dello stesso corpo. Siamo prossimi, vicini. Nel bene e nel male. “Sentirlo” è già segno di amore. Perché solo l’amore è capace di riconoscere la verità deformata dalle cupe foschie del dolore. Solo l’amore riconosce l’altro come parte di sé. Solo l’amore è capace di perdono.
Emmanuel Albano
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