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Daniele D’Agostino: è pugliese il miglior food photographer del mondo

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daniele d'agostino fotografo

Il fotografo salentino Daniele D’Agostino è il primo italiano a conquistare il prestigioso Foodelia International Food Photography Award. Una storia d’amore, serpenti arte e America.

Sapete qual è la distanza tra Novoli, piccolo comune del Salento con poco più di 7.000 abitanti e New York City, nell’omonimo stato degli Usa che conta circa otto milioni e mezzo di residenti? 7.372 Km. Troppi, soprattutto se li immagini su una linea retta da percorrere per 9 ore a bordo di un aereo o, come tanti Italiani fecero da inizio ‘900, in terza classe di un viaggio che durava circa un mese. Si arrivava ad Ellis Island; era qui che iniziava, dopo un periodo di quarantena, la “nuova” vita per tanti concittadini che si erano lasciati alle spalle tutto pur di avere una chance nell’agognata terra delle opportunità. Perché nell’immaginario comune, alla fine, l’America è proprio questo: la convinzione che se hai voglia di fare qualcosa, se sei meritevole, insomma se vali, qualcuno lo noterà e tu esaudirai i sogni che riempiono il tuo cassetto. È chiaro che questo, in maniera molto sintetica, è il mood del sogno americano che, badate bene, non si realizza per tutti e spesso, come cantava Gianni Morandi in Italia, «uno su mille ce la fa…».

Daniele D’Agostino è uno di quelli che ce l’ha fatta. Uno che l’America l’ha sognata fin da bambino e probabilmente neanche ci pensava che un giorno, con le sue foto, avrebbero allestito una mostra nel prestigioso Urbani Tru4es al 10 di West End Avenue. Ma andiamo per gradi.Oggi Daniele è il primo italiano ad essere stato nominato miglior fotografo al mondo per il prestigioso “Foodelia – International Food Photography Awards”, la competizione internazionale sulla food photography alla quale hanno partecipato più di quattromila concorrenti provenienti da 79 Paesi. Una gara difficile, molto selettiva, che tiene conto soprattutto del talento e della capacità di comunicare il cibo attraverso scatti che sono delle vere e proprie icone di genio e raffinatezza: pensate che solo il 10% delle opere inviate entrano in gara.

La strada che ha portato D’Agostino al conseguimento di questo traguardo è lunga e caratterizzata da tantissime sliding doors. Non ci è dato di sapere, ad esempio, quale sarebbe stato il suo destino se non avesse seguito l’amore prendendo quel treno per Pistoia, né sappiamo come sarebbe stata la sua carriera se avesse continuato a fare il pittore piuttosto che il fotografo. Sappiamo però chi è oggi questo salentino che sta conquistando il mondo con la sua bravura e che ha deciso di raccontarsi ad Amazing Puglia.

Prima l’Istituto D’Arte e poi l’Accademia delle Belle Arti, che l’arte fosse al centro delle tue scelte non è mai stato messo in discussione…

«L’arte è stata da sempre un’attrazione forte, innata, naturale, da quando ero bambino».

daniele d'agostino fotografo

Finita l’Accademia hai dovuto fare i conti con il mondo del lavoro e con la difficoltà di trovarne uno che fosse in linea con il tuo percorso di studi. All’inizio avevi allestito un piccolo studio pittorico in una stanza di casa di tua nonna.

«Si, è proprio così. È sempre difficile iniziare e per farlo mia nonna mi concesse l’utilizzo di una stanza nella quale mettere colori e tele. La convivenza non è stata sempre facile – sorride – perché il caos di uno studio d’arte non si sposa benissimo con merletti e centrini. In questo periodo ho avuto modo di pensare molto a quello che volevo fare. Non posso dimenticare assolutamente l’incontro con il maestro cartapestaio Cosimo Casarano, i cui insegnamenti hanno influito tantissimo sia nella sfera professionale che in quella personale. Devo a lui l’amore per i serpenti e la maturazione in campo artistico».

A proposito di serpenti, sappiamo che la tua vita, oltre che dall’arte, è fortemente influenzata dal mondo dei rettili: oltre che amare questi animali ad un certo punto ne sei diventato anche allevatore.

«Tutta la mia vita è stata guidata dalla figura dei serpenti, da quando ero piccolo. Ho sempre ammirato la bellezza e l’eleganza di questi animali, il tutto avvolto dal loro essere così misteriosi e sfuggenti, dalla capacità che hanno di mutare, di cambiare pelle per tutto il corso della vita in una continua trasformazione ed evoluzione. Sono stato incuriosito anche dall’aspetto culturale che vede da sempre questi animali come i più famosi rappresentanti dell’occulto, del maligno, del demoniaco, caratteristiche che ho sempre notato essere in contrasto con ciò che riescono ad esprimere grazie alla loro straordinaria bellezza. Il serpente rappresenta il minimalismo e nello stesso tempo l’eccentricità della natura, dove colori e disegni si fondono in abbinamenti mozzafiato. Per questo motivo ho deciso di osservali sempre più da vicino, allevandoli e dedicandomi attivamente al loro studio e riproduzione».

Quando hai capito che oltre alla pittura nel tuo universo c’era anche la fotografia?

«Mi sono avvicinato alla fotografia ai tempi dell’istituto d’arte, grazie al
professore di pittura che ha saputo trametterci la sua passione per questa
disciplina. Nel tempo ho usato la fotografia in modi diversi, dapprima in
pellicola e poi in digitale, per ritrarre sia le mie opere che i miei serpenti. Ho
individuato nella fotografia il mezzo perfetto per poter immortalare la
bellezza di questi animali e catturare rari momenti come quelli della schiusa
delle uova. Nel 2010 lanciai un sito dedicato alla passione dei serpenti, con
una collezione fotografica incredibile, avevo allestito (sempre nel salotto
della nonna) un vero e proprio set con piante, mangrovie e rocce, illuminando
la scena con un kit di luci auto costruito, usando come diffusore la carta forno. Alcune di queste immagini sono attualmente stampate su vari libri tematici. Da questa esperienza non solo ho compreso che la fotografia era una sfida che mi appassionava sempre di più ma ho realizzato che in studio potevo ricreare sia la luce che l’atmosfera che volevo, la parola d’ordine quindi è sempre stata creare».

Ad un certo punto della tua vita, Novoli comincia a starti stretta e decidi di trasferirti a Pistoia. Perché questa città?

«Avevo molti contatti tra amici appassionati e allevatori, ho avuto modo di viaggiare in tutta Europa. Questo mi ha fatto capire che aldilà dell’uscio di casa, c’era un mondo dal quale poter attingere per arricchirsi».

A Pistoia incontri una persona che ti cambia la vita, Jessica. Possiamo dire che questa è un’unione nel segno dei serpenti?

«Mia moglie ha da sempre avuto la passione dei serpenti, allevandone alcune specie già prima di incontrarmi. L’ho conosciuta per una serie di circostanze molto fortuite, grazie ad un amico erpetofilo (così si chiamano gli amanti dei serpenti) in comune, proprio di Pistoia, e da qui l’incontro che mi ha stravolto la vita. Dopo cinque anni è nata nostra figlia Helena, che porta il nome di una specie di serpente asiatico molto bello ed elegante, Elaphe Helena. Sarebbe bastato quest’ultimo inciso in realtà per rispondere in modo esaustivo alla
tua domanda».

Hai cominciato a fotografare con mezzi non proprio professionali: carta da forno e luci di fortuna sono stati gli strumenti che hai utilizzato per i tuoi primi servizi. Incoscienza o eri sicuro delle tue capacità?

«Credo che il più grande limite dell’attrezzatura sia soltanto chi la usa. Quando tengo i miei corsi di fotografia, obbligo i miei studenti ad abbandonare per un attimo la passione per gli oggetti e a fotografare in modo istintivo con il cellulare. Un buon fotografo deve fare delle buone foto (e non ho detto belle) anche con la macchinetta fotografica della Chicco (ammesso esista). Non mi interrogavo sulle mie capacità, non mi interessava, ero solo interessato a creare, divertirmi e sperimentare».

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Per il tuo primo servizio sappiamo che hai fatto un lavoro immane guadagnando 1.000 euro. È stato in quel momento che hai preso consapevolezza che avresti potuto vivere di quello?

«In realtà erano soltanto 500, ma mi sembrarono tantissimi e soprattutto mi sembrò assurdo che qualcuno mi desse dei soldi in cambio di “fotografie”. Nel tempo ho capito che per molte persone questa è la norma, non comprendono il lavoro, la formazione, l’attrezzatura, la creatività, lo studio, il know how che c’è dietro uno scatto. Quando paghi un professionista, non paghi il progetto in questione, paghi tutto il resto, tutta la strada fatta per arrivare fin lì, fino a quel risultato».

Penso che ciò che accade sia il risultato di un progetto più ampio: magari non siamo in grado di capirlo bene, ma c’è. Ad un certo punto della tua carriera professionale incontri Olga Urbani, presidente del Gruppo Urbani Tartufi e inserita nelle 50 Most Powerful Women di Fortune Italia. Quanto è stato importante per te questo incontro?

«Olga Urbani è ormai un’amica, una persona cara, della quale ho grande stima e rispetto, posso tranquillamente affermare che sia una dei personaggi chiave nella storia della mia vita. Quando penso al profumo di tartufo, io mi sento a casa, perché Urbani Tartufi, gruppo del quale Olga è la presidente, mi ha dato grandi possibilità sia di espressione artistica che di realizzazione professionale».

Hai sempre sognato l’America e proprio grazie a Olga Urbani riesci a visitarla per lavoro. Cosa ricordi di quel primo viaggio?

«Ho toccato il suolo americano per la prima volta circa 10 anni fa, per realizzare parte del primo video istituzionale dell’azienda Urbani, che a Manhattan ha la propria sede Usa. Mi ricordo ogni dettaglio, è stato come entrare nello schermo del cinema. New York è come un grande set a cielo aperto, proprio come nell’ immaginario collettivo. È un parco giochi per creativi».

Quante volte hai pensato di trasferirti a vivere in America?

«Credo di aver perso il conto. Se vogliamo chiamarlo tale, il “problema” è nell’essere italiani, perché l’identità che ci portiamo dentro, alla fine, ha bisogno del suo habitat naturale per poter continuare a crescere ed esprimersi, quindi alla fine sia io che la mia famiglia abbiamo scelto di rimanere in Italia».

New York è una tra le mete più gradite al popolo dei creativi di tutto il mondo; strano visto che l’Italia nell’immaginario comune è la culla dell’arte. Che differenza c’è tra l’Italia e l’America per un artista come te?

«In America, quanto meno a New York che conosco abbastanza bene, scorre tutto almeno quattro volte più veloce. Molti creativi hanno scelto di vivere lì, come tanti artisti e professionisti. È quindi un ambiente molto stimolante, ricco di confronto, ma nello stesso tempo, se non hai un’identità autonoma e già affermata, rischi di essere travolto come una piccolissima onda dall’oceano».

New York ospiterà a marzo 2023 la tua prima mostra internazionale. Ci dai qualche dettaglio?

«L’idea nasce dopo il primo posto al Foodelia Award: realizzare una mostra con lavori fotografici fine art a tema food, proprio nella sede di Urbani, che ospita il Truffle lab, uno spazio creativo dedicato non solo alla cucina o al tartufo, ma più in generale all’esperienza che attraverso il cibo si può fare. È uno spazio che ospita seminari, workshop, show cooking con chef stellati e presentazione di libri, quindi il posto perfetto dove collocare una mostra fotografica sul cibo».

Sei il primo Italiano ad aggiudicarsi il Foodelia International Food Photography. Come ci si sente a raggiungere questo traguardo?

«Un traguardo inseguito con tenacia, sforzi immani e momenti bassi, quindi
davvero una gran soddisfazione e orgoglio, perché è in Italia che nascono i migliori fotografi di food, da sempre. Sono felice di appartenere a questa categoria».

Lo scorso 19 dicembre a Milano presso Eataly è stato presentato un libro edito da Slow Food Italia che racconta 170 anni di storia di Tartufi Urbani. Sappiamo che hai fatto un lungo viaggio per raccontare il tartufo in questo libro… di cosa si tratta?

«Un libro intitolato “Le stagioni del tartufo”, dove abbiamo raccontato il
Re della tavola nelle mani dei migliori chef al mondo. Olga Urbani mi ha
incaricato di fotografare gli chef presenti nel libro, partendo dall’Italia
fino a New York, scattando sia food che ritratti. È stata un’esperienza
davvero incredibile. Vedere il proprio lavoro stampato su migliaia di pagine
credo che sia il momento più alto per un fotografo».

Ti hanno scelto le più importanti aziende italiane e hai fotografato tantissimi personaggi iconici; tra i tuoi ritratti più famosi anche quelli agli chef Masa Takayama e Gianfranco Vissani. Pensi si tratti di fortuna o di talento?

«La fortuna è quando un’ottima preparazione incontra la buona occasione. Non ricordo chi lo disse, so che mi è rimasto sempre in testa. Penso che occorra inseguire follemente i propri sogni facendosi trovare sempre preparati (e con la valigia pronta). Ricordiamoci che anche gli astronauti o le rock star, hanno due braccia e due gambe come noi, qualcuno forse qualche capello in più di me, ma bene o male siamo lì».

Quanto ha influito il posto in cui sei nato per essere il Daniele di oggi?

«Siamo il frutto di esperienze, di culture millenarie, di tradizioni. L’ambiente in cui viviamo ci plasma costantemente, quindi sì, siamo il frutto di dove nasciamo, ma soprattutto di come viviamo. Molti giovani credono che per avere l’opportunità di crescere e realizzarsi, sia di primaria importanza nascere in una grande città, o in una metropoli come New York. Bene, a chi pensa questo dico solo che il mio studio si trova nel cuore dell’Appennino Tosco Emiliano, in un paesino di 500 abitanti e le finestre si affacciano su un fiume».

Cosa c’è nel tuo futuro e quanto ti senti felice oggi?

«Nel mio futuro c’è sempre il “chissà”. Non sono molto abitudinario, mi piace esplorare, provare, creare cose nuove, adesso ad esempio sto lavorando al progetto di una serie televisiva che avrà come location lo Yucatan in Messico, non posso dire altro se non che il focus è sempre sul food e che la connessione con il mondo dei serpenti è stata fondamentale».

Appena finito di intervistare Daniele non ho potuto far altro che sentirmi felice; i suoi occhi brillano perché illuminati da una vita voluta fortemente; una vita fatta di scelte guidate dall’amore nel senso più alto del termine. Nonostante il mondo in cui viviamo ci abbia abituati a non credere più nei sogni e ci abbia resi oltremodo realisti tanto da determinarci “aridi”, sono tornato a pensare che alla fine, ognuno di noi, è il risultato di scelte, a volte folli, che ci fanno artefici del nostro destino.

Testo di Diego Colucci

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