Caio Gracco: Il 19 febbraio è scomparso l’artista che aveva scelto la Puglia dopo aver vissuto il mondo. Il suo ricordo è affidato alle parole della figlia.
19 febbraio, Caio Gracco ci lascia. Una settimana dopo Fabio Mollica mi chiede di scrivere un articolo su di lui. Lo chiede a me, perché nessuno lo avrebbe ricordato meglio di sua figlia. Sono sincera. L’ho detestato per questa richiesta e ancora adesso vorrei scappare. Le parole mi infastidiscono, continuano a ferirmi. E io continuo a sfuggire. Non posso dare un nome a ciò che sento. Ora, ho ancora bisogno di tempo. Entrambi però siamo consapevoli che è una richiesta a cui non posso sottrarmi. Semplicemente perché Caio avrebbe adorato leggersi. Proprio lui che negli ultimi anni voleva lavorare alla performance “Funerale da vivo” per fare esperienza di ciò che nessuno può conoscere. Per superare quel limite tra vita e morte, guardandosi da fuori. Poi con il suo solito sorriso ironico diceva «e mi raccomando, scriviamo NO FIORI, MA OPERE DI BENE». E rideva, di gusto. Perché Caio non ha mai perso il suo spirito. Lo spirito partenopeo, quello del “Stongo scetato, dormo, o è fantasia?”. Quell’ironia che illuminava ogni momento felice o drammatico, quel senso del relativo che lo istigava a sognare. Nonostante tutto.
Ho pensato in questi giorni quale fosse il modo meno retorico per parlare della perdita di un padre. Quando si tratta di un artista è poi ancora più difficile. Si lavora nella dimensione della complessità. L’imprevedibilità, ancor più. E nel caso di Caio, la poetica artistica è sempre stata tutt’uno con la dimensione di uomo. Un uomo curioso, audace e con una complicata attitudine alla rivoluzione. E allora, se devo attraversare questo racconto, tratterrò il respiro ed entrerò nella nostra storia con verità e immaginazione. Così come abbiamo sempre fatto quando eravamo insieme.
Questo, è un breve viaggio scandito dalle parole amate di più. Quelle che hanno guidato la nostra vita.
Per lui è sempre e solo stata una questione di AMORE.
Orfano di madre, è cresciuto e coccolato da tre zie che gli regalano il primo studio dove lavorare già a tredici anni. Nel 1953 ad Angri, tra guappi di cartone e possidenti terrieri, trascorre i pomeriggi tra colori e tele, oppure a cercare le forme nelle nuvole. O nelle crepe dei muri. Così per tutta la sua esistenza continua a leggere nuove forme e cerca l’amore. Prima di essere artista, Caio è un pensatore romantico che si incanta davanti alle stelle, perdendosi nella musica di Mozart. Un’inclinazione che si esprime con forza nelle sue opere. Dai corpi nudi che si uniscono all’espressività del colore, che esplode tra geometrie e sfondi scuri. E poi, il suo modo appassionato di vivere le cose e le persone. A diciassette anni lascia Angri per raggiungere Parigi, attirato dal movimento esistenzialista. Si finge maggiorenne ed entra nel
vivo dei club di Saint Germain des Prés, dove riesce a conoscere Jean Paul Sartre e Juliet Grecò. Raccontava che per entrare nel circolo bisognava
vestirsi tutti di nero con alti dolce vita. Lui, ancora adolescente, arriva tutto
vestito di bianco, abbronzato. Viene subito notato, di primo impatto lo
scambiano per algerino ma poi diviene il piccolo artista italiano.
Ritrovato e riportato a casa, è ormai proiettato nei libri di filosofia e POLITICA militante per connettersi concretamente con le persone e con il mondo.
Profondamente di sinistra fino all’ultimo secondo e fin da subito totalmente indipendente da partiti e ideologie. Lascia quindi il Sud per trovare nuove visioni. I primi anni a Torino, in cui fatica a raccontarsi artista e meridionale, sono segnati da una profonda necessità di definizione di sé stesso. Di giorno lavora per Felice Casorati e come bozzettista per Armando Testa. La notte invece si rinchiude all’Aspera Frigo per assemblare compressori. I quadri dipinti in quegli anni raccontano di grandi e alti muri in città votate alla scalata sociale. In primo piano, davanti a paesaggi metropolitani fatti di ciminiere e cantieri, l’uomo e la donna avvolti da un profondo silenzio esprimono la solitudine del progresso e dell’immigrazione.
Da Torino approda a Milano, capitale europea della cultura. Questi sono stati gli anni più emozionanti e stimolanti. Inizia a fare importanti mostre e scopre amici unici come Vittoria Palazzo, Vittorio Stagno, Maurice Henry e Ruggero Orlando. Entra alla Rinascente prima come vetrinista e poi come responsabile delle merci dure, fino ad aprire un reparto dedicato all’arte in cui si organizzano mostre e si vendono litografie. L’iniziativa di portare l’arte fuori dalle gallerie e dai musei, nei luoghi che le persone vivono e attraversano tutti i giorni, è accusata di blasfemia dal mondo dell’arte. Per Caio è invece un atto di dissacrazione e di democratizzazione dell’Arte.
La sua RIVOLUZIONE inizia a prender forma: non assecondare un sistema ma seguire esclusivamente la necessità espressiva.
Così accade anche per il Translumismo. All’inizio degli anni ’70 viene invitato dalla Basf, quintessenza della chimica nel mondo. Sperimenta il @Lupolen, un nuovo materiale plastico votato a nuove applicazioni espressive. Così Caio impara a dominare la materia e lascia la figurazione a favore di una ricerca
tridimensionale del colore. Proprio da qui nacque il Translumismo che non si limita ad utilizzare un materiale altro per fare arte, bensì partendo dalla materia grezza riesce a fondere il processo chimico con quello artistico. Appoggiato dalla Galleria Gianferrari e supportato dalla Basf, il successo di pubblico è incredibile. Viene subito accusato dalla critica di essersi venduto all’industria. A quei tempi è benvoluto il mecenatismo, ma non si è mai vista un’operazione di sponsorizzazione da parte di un’azienda.
Per tutta la vita Caio non ha voluto scendere a compromessi, non si è messo sotto contratto con un gallerista, non si è fatto coinvolgere in movimenti artistici creati per soddisfare il mercato.
Per lui dipingere, fotografare o scrivere ha significato in assoluto difendere la LIBERTÀ di sé stesso e degli altri.
Il progetto di arte pubblica “Così ci Vogliono” è parte di questa sua visione militante dell’arte. Nel settembre del 2007 la città di Napoli si sveglia letteralmente tappezzata da un’unica immagine: un uomo – Caio stesso – e un cane, entrambi con il volto ingabbiato da una museruola sui quali campeggiava la scritta “così ci vogliono”. Una campagna di affissioni capillare che si conclude con l’occupazione simbolica del museo Pan. Con quel progetto Caio incita il passante a interrogarsi su quale tipo di sistema voglia controllare la sua libertà, ma soprattutto rappresenta un’esortazione estrema all’autodeterminazione.
Da uomo inquieto e curioso cambia tantissime case e città, ha bisogno di
scoprire ciclicamente vedute e colori nuovi. Così allo stesso modo attraversa
diversi periodi stilistici, dal figurativo al geometrismo astratto, dalla fotografia agli ultimi lavori chiamati Elaborazioni. Il cambiamento è una necessità e una cura alla noia.
Dal 2015 viveva in Puglia, dove ha trovato nuove ispirazioni e nuovi amici. Negli ultimi cinque anni ha domato la fibrosi polmonare idiopatica, una malattia rara che potrebbe essere causata dall’esposizione prolungata ai solventi. Proprio quel caratteristico odore del suo studio forse lo aveva fatto ammalare. In questi anni sa comunque godere della bellezza di questa terra, trattiene il MARE negli occhi e progetta fino all’ultimo nuove idee e nuove visioni.
Stargli accanto non è stato sempre facile, una vita fatta di bassi e altissimi, di grandi battaglie e sacrifici che in pochi capivano. Non è stato facile, allo stesso tempo però è stato bellissimo, perché mia madre ed io abbiamo fatto parte di un progetto di arte totale. E tra pochi mesi sarà pronta Animamia, la sua casa studio a San Vito dei Normanni, che in parte diverrà una fondazione per sostenere i giovani artisti. Così come da sue volontà. Caio ha rappresentato fino alle ultime ore il nostro presente e il nostro futuro. Ora è impossibile farlo vivere nel nostro passato. Continueremo a sognare con i suoi occhi e gioire insieme a lui. Davanti a un cielo stellato, libero, immenso. Luminoso.
di Alexandra Gracco Kopp
Progetto fotografico inedito di @Ala D’Amico che ha ritratto Caio Gracco nel suo studio romano
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