Personaggi

Vincenzo Zampa: l’attore è un animale sociale

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vincenzo zampa
Foto di MAF Studio Milano

Francesco Del Grosso ha incontrato l’attore monopolitano che si divide tra cinema, tv e tanto teatro: Vincenzo Zampa

Cinema, tv e tanto teatro. Su quest’asse ha camminato e continua a camminare come un funambolo sulla fune Vincenzo Zampa, attore intenso e di grandissimo talento, che ha fatto della versatilità, dell’equilibrio e della meticolosa preparazione del e sul testo il suo biglietto da visita. Quello con il quale dalla sua Monopoli ha deciso di partire per un viaggio nel mondo della recitazione, che lo ha portato negli anni a interpretare personaggi importanti e complessi sul grande e piccolo schermo, oltre che sulle tavole dei palcoscenici di prestigiosi teatri. Ed è delle tappe di questo viaggio unico e irripetibile, dal principio agli impegni più recenti, che abbiamo voluto parlare nel corso di una one-to-one andata in scena in un locale nel cuore di Milano, la città che lo ha adottato umanamente e professionalmente.

Perché a un certo punto un ragazzo di Monopoli sceglie o viene scelto dall’arte della recitazione e quando è scattata la scintilla che ha trasformato quella che inizialmente era solo una passione in un percorso di vita e professionale?

A dire il vero a me è sempre piaciuta la cucina e avrei voluto fare il cuoco, ma i miei genitori all’alberghiero preferirono lo scientifico. Ed è proprio li, in maniera assolutamente casuale, che all’età di 15 anni è scattata la scintilla andando a vedere uno spettacolo teatrale dei miei compagni di liceo. Se ci ripenso ho ancora il ricordo del momento in cui al termine di quella rappresentazione ebbi la netta sensazione che quella sarebbe potuta essere la mia strada. Non so però se l’ho scelta o sono stato scelto, ma sicuramente sono stato preso e attirato in qualche modo da quella forma d’arte. È come una specie di innamoramento, dove il più delle volte basta uno sguardo per andare oltre la logica e iniziare a farsi guidare dall’illogico. A quel punto, quando ti innamori, ti senti come elevato ed è esattamente ciò che è accaduto a me quando quel giorno ho incontrato la recitazione. Poi ho deciso di farlo diventare un mestiere vero e proprio quattro anni dopo, quando ho avuto la fortuna di lavorare come comparsa nel “Così fan tutte” di Wolfgang Amadeus Mozart per la regia di Giorgio Strehler, ripresa da Gianpaolo Corti, co-prodotto dai Teatri di Bari. Lui decise di utilizzare come mimi degli attori pugliesi e tra questi c’ero anch’io. E così mi sono ritrovato a 19 anni in una tournée in giro per il mondo. A quel punto non ebbi più dubbi sul fatto che quella era la vita che avrei volevo fare.

C’è stato un momento in cui hai messo in discussione tutto e quelle che erano delle certezze non lo sono state più?

Come ogni storia d’amore anche questo mestiere ha i suoi alti e bassi, che
ciclicamente ogni due/tre anni mi fanno rimettere in discussione tutto. Ci sono stati dei periodi in cui non ho lavorato, altri invece in cui non ho avuto un attimo di pausa. A volte ho preso delle decisioni che mi sono costate professionalmente, dicendo no a delle proposte perché artisticamente non mi appartenevano o non rispecchiavano il percorso fatto sino a quel momento. Ma non ho rimpianti in tal senso, perché se potessi tornare indietro con le lancette dell’orologio rifarei le stesse scelte.

vincenzo zampa

Foto di MAF Studio Milano

Tra le scelte c’è stata anche quella di lasciare la Puglia per andare a formarsi fuori: tappa obbligata o semplicemente dettata dalla curiosità di scoprire cosa ci fosse altrove?

Entrambe le cose. La Puglia all’epoca non era una terra che offriva le stesse opportunità di oggi e le scuole di teatro più quotate sono tutte fuori Regione. E infatti mi sono diplomato allo Stabile di Genova. Ma al di là di questo, fare esperienze anche fuori dai confini familiari ti aiuta a portare sulla scena o sullo schermo un vissuto diverso. Lontano da casa e dalla mia terra ho affrontato tante cose, belle e brutte, ma grazie ad ognuna di esse sono cresciuto come uomo e come artista. Io porto sempre un pezzo di vita quando faccio qualcosa, indipendentemente che sia per il cinema, la televisione o il teatro. In quel qualcosa però c’è sempre un pezzo di Puglia che mi vibra dentro, perché sono assolutamente e orgogliosamente meridionale. La testa ce l’ho al Nord, ma il cuore e le passioni, quelle sono del Sud, dove ci sono i miei
affetti più cari e le mie radici più autentiche.

Cosa la caratterizza al punto tale da essere scelto da registi e produttori rispetto ad altri colleghi del panorama italiano?

La luce. È una questione di giustezza, di attimi e di brillantezza. Non si tratta
però di bravura o di merito, ma più semplicemente ci sono dei momenti nella
vita in cui si creano degli incroci particolari che permettono a questa luce di
venire fuori. Io quella luce credo di averla e ci sono state delle occasioni in cui
penso di essere riuscito a “illuminare” il palcoscenico o il set con una mia
interpretazione.

Quando ritiene di  essere riuscito ad accendere questa luce?

Penso in “Comedians” di Gabriele Salvatores, dove ho interpretato Michele Cacace, un attore meridionale molto timido e remissivo. In quel personaggio c’è molto di me e del mio modo di essere. Ma anche in un altro film di prossima uscita diretto da Antonio Pisu dal titolo “Nina dei lupi”, dove vesto i panni di una figura cattiva e viscida, totalmente diversa da quella della pellicola del regista napoletano di adozione milanese.

Cosa guida le sue scelte e la spinge a decidere di accettare un ruolo piuttosto che un altro?

È una questione di pancia. Quando sento una prurigine interna, quello
rappresenta il segnala che ciò che sto leggendo ha qualcosa di interessante. A maggior ragione se riesco a visualizzare e a immaginare ciò che il contenuto di quel testo o di quella sceneggiatura potrà diventare sullo schermo o sul palcoscenico.

Come si avvicina e come costruisce un personaggio?

Parto dal testo, leggo le battute, immagino il suo background, ascolto della musica e banalmente cerco di capire anche come può camminare. Tutto questo mi aiuta a farlo mio, perché sono un attore che ha bisogno del corpo e di vivermi le sensazioni fisiche del personaggio. Poi cerco di stare in ascolto totale e mi pongo una domanda fondamentale: come reagirebbe nella vita di tutti i giorni? Parto da lì, portando quel dato personaggio nel mio di quotidiano al punto tale da arrivare addirittura a condizionarmi. È capitato a volte che abbiano influenzato delle scelte, anche sulla scia di cose che stavo studiando o approfondendo in quel momento. Ovviamente parlo di piccole cose, come ad esempio l’utilizzo nella vita reale di certi battute che diventano dei tormentoni quando semplicemente sto parlando con delle persone.

Quando invece è chiamato a interpretare delle figure realmente esistite o ispirate a persone realmente esistite, cosa scatta in lei? In che modo cambia il suo approccio?

Recentemente ho interpretato nel film tv di Umberto Marino dal titolo “Tutto per mio figlio” il ruolo di Sergio De Luca, un giornalista liberamente ispirato a figure realmente esistite che senza essere nessuno tenta di raccontare una storia scomoda, con tutti i pericoli che questo comporta. Il film a sua volta si ispira a una storia vera, quella di un commerciante del casertano che con coraggio e ostinazione decide di fondare un sindacato per ribellarsi al racket criminale. In quel caso sentivo addosso la responsabilità di veicolare attraverso un personaggio un messaggio importante. Ma allo stesso tempo per raccontare una vicenda come questa non bisogna mettere la persona davanti al personaggi, ma deve essere quest’ultimo a parlare. L’attore deve scomparire, mettendosi al completo servizio della storia e di chi la anima. Non è la prima volta che mi capita. In “Diaz” o in “In arte Nino” ad esempio ho interpretato delle figure realmente esistite. Ovviamente ho cercato anche di incontrarle, ma nel caso del film di Daniele Vicari e della serie su Nino Manfredi, dove vestivo i panni di Gianni Bonagura, non è stato possibile. Allora ho cercato di carpire tutto quello che potevo sulle loro vite e dalle informazioni in circolazione, avvicinandoli con profondo rispetto e senza mai giudicarli.

Una volta fatti suoi i personaggi, quanto è difficile liberarsene quando è giunto il momento di svestirne i panni?

Da un punto di vista psicologico non ho mai avuto problemi a svestire i panni di un personaggio, anche i più complessi come possono essere stati quelli interpretati a teatro in “Morte di un commesso viaggiatore” o “The History Boys”. Nel primo ero un tipo ricchissimo, sicuro di sé e figlio di papà. Niente di più distante da me. Nel secondo invece ero un ebreo omosessuale. In questo caso ho provato a portarlo a me, ripensando alla mia condizione di ragazzo cresciuto in un paese ed emarginato in una grande città. Trovo dunque dei correlativi. Sono figure, queste, che a loro modo mi hanno messo in difficoltà, ma non mi sono mai trascinato nella vita reale le loro scorie, le loro ferite e i loro malesseri interiori.

Qual è secondo lei la funzione di un attore nella società odierna?

Per quanto mi riguarda non è mai cambiata e resterà sempre la stessa. Per me l’attore è un “animale sociale”, che deve stare nella società e nella polis. E deve avere una funzione anche politica, intesa in tutti i sensi, non solo partitica, ma come presa di posizione rispetto alle situazioni e agli argomenti che si trova ad affrontare. Nell’Antica Grecia gli spettacoli non servivano solo a intrattenere, ma anche a fare riflettere le persone. E la funzione dell’attore è proprio quella di veicolare un messaggio, qualsiasi esso sia, ma che possa essere utile e non solo bello.

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