Editoriali

Quel che resta del sog-giorno

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Le stagioni turistiche passano e l’obiettivo resta uno solo: salvare il salvabile e riempire le strutture, non importa come. E invece importa, perché il turismo sta cambiando, perché cambia la società. A Copenaghen hanno dichiarato morto il turismo. Dando il benvenuto al concetto di “localhood”

Luca Caputo

Sono passati 25 anni da quel giorno in cui a Venezia i Pink Floyd accesero le luci su uno degli eventi rimasti nella memoria come una specie di catastrofe, di tentato suicidio di una città che non seppe organizzare l’invasione dei fan di una delle più popolari rockband del mondo, trovandosi alla fine a subirne l’assalto fortunatamente pacifico nella peggiore condizione possibile.
Per certi versi, sembra il destino delle nostre località balneari: fino a che punto è conveniente pagare lo scotto di flussi turistici concentrati e imponenti in territori che non sono in grado di sostenerne il carico in termini di mobilità, inquinamento, disservizi, sporcizia? Il dibattito sui benefici o sui danni che tale fenomeno comporta è ampio e mai sopito, perché in fondo le stagioni passano e l’obiettivo è uno solo: salvare il salvabile e riempire le strutture, non importa come.
Il gioco delle parti sembra trascinarsi svogliatamente anno dopo anno: ci si agita a luglio avviando l’iter dello scaricabarile tra privato e pubblico, ci si risveglia dopo le giornate anestetiche di agosto e si conclude con la stanchezza di settembre addosso e le tasche piene, con la testa già ai primi timidi resoconto della stagione appena trascorsa.
E così, tra le solite noiose discussioni su frise costose, trasporti e proclami di destagionalizzazione, il pensiero di quasi tutti è che il gioco in fondo valga la candela, immolando di fatto ogni sforzo di programmazione al cospetto del più celebre carpe diem. Il punto è che, purtroppo per noi, “L’attimo fuggente” è solo un bel film e la filosofia del carpe diem è l’ultima cosa di cui questa terra ha bisogno.
Si può ancora pensare di affrontare le sfide che il settore turistico continuamente ci propone, pensando di coltivare il proprio orticello con politiche frammentate, assenza di strategie e coordinamento territoriale, cattiva promozione e commercializzazione?

Eppure, il bisogno stesso di viaggiare sta cambiando forma, risultando ad oggi l’unico settore con un trend di crescita sempre positivo e sempre più crescente nei prossimi anni. I dati sono significativi: le attività turistiche muovono oltre il 5 per cento del Pil e oltre il 6 per cento degli occupati del Paese: un milione e mezzo di occupati diretti, un lavoratore su sei (se comprendiamo tutto l’indotto) impiegato in attività che ruotano intorno al settore turistico. Numeri impressionanti per un Paese
in cui il Ministero del Turismo sembra ancora non aver trovato casa e trasloca nuovamente in poco meno di due anni, i sindacati parlano di tutto tranne che dei lavoratori che operano nel turismo e non si vede all’orizzonte lo straccio di un Piano Industriale centrato su questa grande risorsa. Va da sé che, nel frattempo, grazie anche alla nostra scarsa capacità di promo-commercializzazione (abbiamo il mare più bello non è propriamente una “strategia”) e ad un certo tipo di offerta che ha visto il turismo come il nuovo Eldorado in cui riversare i propri investimenti, senza un minimo di formazione e di preparazione degli addetti nella filiera, i viaggiatori stiano già scegliendo altre destinazioni.
Il punto è che non abbiamo capito che non sta cambiando solo il turismo ma la società stessa: sta cambiando dunque il modo di lavorare, la necessità di spostarsi, la mobilità e i bisogni del singolo individuo.
Il viaggiatore che si affaccia nei nostri luoghi è un turista e al tempo stesso un lavoratore, un padre di famiglia e uno sportivo amatoriale, vuole restare sempre connesso, vuole connessioni col territorio e coi suoi abitanti, si sposta per più motivazioni di viaggio. Genera connessioni (interessi, motivazioni di viaggio) in rete, si muove seguendo relazioni e le condivide nei luoghi. Non a caso una ricerca di Amadeus parla ormai di “tribù” di viaggiatori e Copenaghen ha dichiarato morto il turismo così come lo conosciamo, dando il benvenuto al concetto di Localhood: non più un turista che cerca la foto perfetta ma una connessione personale ad un’esperienza condivisa fatta di relazioni, interessi e autenticità.

Per il Sud è la piu grande opportunità a disposizione dal dopoguerra ad oggi: sfruttare l’enorme flusso di viaggiatori (quasi due miliardi di per- sone) che si sposterà da qui al 2030 scegliendo territori dove esperienza e tradizioni si fondono in un’unica proposta di valore. Quello che da altre parti occorre costruire, in termini di offerta turistica, qui rappresenta la memoria fondante dei luoghi: ruralità, artigianato, agricoltura, food sono il petrolio di questa terra, possibilità di lavoro per chi vuole restare e attrattività per chi vuole venire a mescolarsi con la vita locale.
Un turismo spinto verso il digitale riporta dunque al centro l’importanza del capitale umano e delle relazioni, in questa terra a Sud del Sud: occorrono visioni, formazione e collaborazione. Occorrono visioni perché le tecnologie hanno introdotto cambiamenti nel turismo così rapide, che la programmazione fallisce perché nel frattempo il mercato è già cambiato e sono cambiate le professionalità richieste.
Occorre formazione perché come consulente e formatore di marketing mi rendo conto che le aziende turistiche e i territori non hanno compreso pienamente il potere del digitale e della trasformazione che si sta attuando nel mondo. Occorre collaborazione perché il turismo non è qualcosa che riguarda solo le strutture ricettive: il valore di una destinazione è il frutto della collaborazione di tutti i soggetti che vivono il territorio, dal produttore agricolo al commerciante al ristorante al fornitore di servizi.
La sfida è complessa e, allo stesso tempo, entusiasmante: quanto più emerge la necessità di automatizzare e innovare il mercato turistico, tanto più occorre capire come valorizzare l’elemento umano, in un settore in cui emerge fortemente la voglia non di scoprire le località ma di viverle, forse di abitarle per la vita che resta, dopo averle scoperte per lavoro o per vacanza.

Allora bisognerebbe smetterla di pensare che abbiamo il mare più bello del mondo e cominciare a capire come il mare possa diventare un’attrattiva tutto l’anno, andando a creare prodotti turistici a tema mare che siano in grado di rendersi appetibili per i target di viaggiatori desiderati. E così via dicendo per l’outdoor, la cultura, l’enogastronomia e chi più ne ha più ne metta. Chi lavora nel turismo da anni, chi ha fatto il suo ingresso da poco e i giovani e meno giovani che vedono in quest’economia la possibilità di un sostentamento, di una soddisfazione umana e professionale, hanno bisogno di territori che non si accendono a luglio e si spengono ad agosto perché così è impossibile avviare un percorso di crescita e di sviluppo economico.
In occasione della Borsa Internazionale del Turismo di quest’anno ho coordinato i lavori dell’Arena BeTech, palinsesto di 40 appuntamenti su turismo e digitale in cui founder
di aziende e startup hanno avuto l’opportunità di spiegare alla platea le novità del settore e il modo in cui il loro business è in grado di soddisfare i bisogni dei consumatori di turismo. Ho conosciuto aziende che offrono esperienze di nicchia nel mondo della nautica, realizzano vacanze realmente pet-friendly, offrono sistemi di realtà virtuale e intelligenza artificiale per migliorare le performance delle strutture ricettive. Vedere quella vitalità è importante per capire che, nonostante tutto, ci sono più opportunità in giro di quante non se ne voglia vedere. È il motivo anche per cui, con un altro amico, abbiamo creato il Social Media Tourism, evento formativo che porta a Gallipoli da tutta Italia relatori, professionisti e realtà aziendali che ci insegnano dove guardare se vogliamo davvero sfruttare il turismo come economia fondante di questi territori spesso troppo abbandonati dalle idee, prima ancora che dalle persone.

Prima dunque capiamo che il turismo non è un’economia a sé stante – manifattura, artigianato, agricoltura, food sono economie che integrano e rafforzano l’offerta di un settore che non è appannaggio solo di strutture ricettive e ristoranti – prima ci accorgeremo che se il mondo del lavoro non è più quello di 10 anni fa allora occorre un approccio diverso, un’inversione di cultura. Occorre capire che urge ricreare le condizioni affinché i territori diventino luoghi dove inventarsi e reinventarsi, far capire che bisogna passare dalla mentalità di cercare un lavoro a quella di creare un lavoro.
I territori e le destinazioni possono diventare enormi laboratori a cielo aperto dove sperimentare soluzioni per l’economia turistica e quella ad esso connessa, dove hotel e cantine possono ospitare non solo viaggiatori ma anche professionisti e nuove idee di business in grado di risolvere i problemi di migliaia di aziende e di nuovi consumatori. Nessuno può tirarsi fuori da questa sfida: se tecnologie e mobilità hanno modificato i paradigmi del lavoro stesso, adesso servono idee e nuovi luoghi in cui farle fermentare.

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