Giuliana Matarrese è una delle penne italiane più autorevoli del settore. In questa intervista parla degli ostacoli che ha dovuto superare prima di arrivare a firmare articoli per Glamour, Vogue, Icon. E di lanciare il podcast “La teoria della moda”
Voce inconfondibile: il velluto della milanesità parlata si intreccia ai ricami preziosi delle cadenze pugliesi: «Se vieni dalla provincia, quella dura e cruda. Hai già gli anticorpi per essere pronta a tutto. La città te la mangi».
Parla Giuliana Matarrese. Classe 1985. Giornalista di moda. Da Putignano a
Firenze passando per Milano. La sua vita scorre tra le pagine patinate delle riviste in cui ha firmato: gli esordi a “Glamour’”, poi “L’Uomo Vogue”, “Icon” e infine la consacrazione, da freelance, come autorevole critica di moda.
Interviste da copertina come quella a Donatella Versace per Vogue Italia ma anche Paul Smith, Rossy de Palma, Dapper Dan e persino Jack White, si annoverano tra i goal della sua carriera.
Ma il successo va oltre la carta. Dal podcast “La Teoria della Moda” per “Linkiesta Eccetera” all’account Instagram che vanta 26,2mila followers. È proprio qui che sta riscrivendo le regole della comunicazione di moda. Ma
ora silenzio. Drizzate le orecchie. Perché parla la moda.
Giuliana Matarrese, Luca Guarini, Silvia Schirinzi, Antonio Moscogiuri ma anche Carlo Capasa, Anna dello Russo e Giampaolo Sgura. Made in Puglia nel
fashion system. Cosa vi accomuna e vi fa distinguere dagli altri?
Un certo disincanto pratico. Un pragmatismo tipicamente pugliese. La voglia di far le cose “senza mosse” è quello che ci ha fatto andare avanti. La testardaggine, la “capa tosta”. Lo dico riguardando indietro il mio percorso. I miei peggiori detrattori non li ho avuti a Milano ma a casa mia. Mi ci sono scontrata spesso. Ma è una conseguenza della mentalità provinciale quando scegli un percorso che va fuori dagli assiomi classici: posto fisso, casa e matrimonio. Però va bene così perché mi ha formato e mi ha munito di corazza per affrontare questo mondo bellissimo ma terribilmente razzista, sessista e misogino, che è quello della moda. Molte cose poi cambiano. Ora i familiari sono veramente dei fan. Ed è uno dei miei più grandi successi.
Da quando ha iniziato, nel 2013, com’è cambiata la comunicazione di moda?
Ogni cosa è cambiata con l’arrivo del digitale, dei social. Oggi ci si informa scrollando il feed di Instagram. Questo vuol dire che la comunicazione deve cambiare, diventando multiforme. Il linguaggio istituzionale è troppo distante e adatto solo al cartaceo. Una volta penne autorevoli, anche nel modo di porsi, stillavano disprezzo nei confronti di chi non era del settore e questo ha generato un allontanamento. È sbagliato o andava per quei tempi. Passare lo stesso messaggio, con la stessa qualità ma con un linguaggio diverso è d’obbligo oggi. Io cerco di essere autentica. Di non semplificare (spesso non si può fare) ma di diversificare.
Prima di altri lei l’ha capito e questo ha decretato il suo successo. Quindi giornalisti contro influencer?
Assolutamente no. Credo che siano due lavori diversi, che possono serenamente coesistere. Gli influencer sono dei media che costruiscono una narrazione intorno al loro personaggio. Va benissimo. Abbiamo bisogno di gente che ci racconti delle cose. Ma spesso o sono legati ad un contratto con un investitore o a volte la mera opinione personale non c’è. È artificioso. La qualità è un’altra cosa. È quella che compete al futuro della professione giornalistica. Sono sorpresa dal pubblico eterogeneo e variegato a cui riesco a rivolgermi su Instagram. Se “accogli” puoi parlare a chiunque e spiegare, anche in modo critico, quanto la moda sia pervasiva nella vita di tutti i giorni. Il mio scopo è quello di farlo ad un pubblico quanto più vasto possibile.
L’aspetto che le sta più a cuore e l’affascina delle sue radici pugliesi?
Sono convinta che la dimensione spirituale che ci mette in contatto con la terra sia uno dei lati più profondi dell’essere umano. È per questo che della cultura pugliese, di origine pagana ma bonificata dal cristianesimo, vado estremamente orgogliosa del lato magico, intriso di leggende e figure mitologiche già celebrato da opere di grandi studiosi come Ernesto De Martino.
Il suo sogno a breve e a lungo termine.
Nel breve, intervistare Anthony Vaccarello. Apprezzo molto il suo lavoro da Saint Laurent. A lungo, vincere il premio Pulitzer come Robin Givhan, prima giornalista di moda a riceverlo.
Il nuovo vero volto della moda italiana è quello di un gruppo emergente di giovani designers: Alessandro Vigilante, Marco Rambaldi, Christian Boaro e Salvo Rizza (solo alcuni). Giuliana Matarrese li ha scoperti, li sta lanciando. Ma per portarli dove?
Lo faccio perché credo in un ricambio generazionale. È un’operazione un po’ narcisistica, perché auspicare un ricambio nel dipartimento del design significa auspicarlo in quello dell’editoria. Ma voglio che la moda sopravviva ai suoi grandi creatori e, oltre a nuovi brand, che le grandi maison italiane, quando devono cambiare designer, guardino in casa piuttosto che all’estero. I sopraccitati hanno un cursus studiorum nelle grandi maison e sanno bene come applicare il loro lavoro ad un impianto manageriale. Anche perché poi dispiace vedere operazioni come da Ann Demeulemeester, ora dell’italiano Antonioli. Hai in casa uno come Francesco Murano, che disegna drappeggi quasi come se fosse il Giotto del drappeggio e chiami Ludovic de Saint Sernin, famoso per fare tanga di cristalli?
Testo di Luca Caputo – Foto di Claudia Ferri
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