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Candido 1859, una storia di famiglia

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Il brand salentino festeggia 160 anni di storia. In questa intervista Marco Candido spiega quanto i legami famigliari siano stati importanti per l’azienda

IL marchio Candido 1859 festeggia quest’anno 160 anni di storia. Una storia lunga, avvincente, piena di grandi successi ma, come tutte le storie aziendali, non priva di periodi difficili. Sono 160 anni legati da un filo conduttore: la famiglia. Perché come spesso accade nell’imprenditoria italiana e ancor più in quella del Sud Italia, famiglia e impresa sono un’unica cosa. Le mogli finiscono per dare una mano ai mariti, i figli vengono coinvolti in azienda. E così via, anche per generazioni. Di questo legame tra famiglie e imprese abbiamo parlato con Marco Candido.

Perché la famiglia è così importante, in Italia e forse più ancora al Sud, per la crescita e lo sviluppo delle imprese?

Noi italiani abbiamo un senso della famiglia molto più sviluppato rispetto agli altri paesi: la famiglia è spesso vista come l’unica microsocietà di cui ci si può fidare ed i nostri figli vi rimangono molto più a lungo che in ogni altro paese europeo, dove una società più civile e meglio organizzata consente loro di separarsi prima e con rischi minori. Questo forte senso della famiglia in presenza di aziende di proprietà porta spesso ad eliminare il con- fine tra lavoro e privato, e pranzi e cene diventano consigli di amministrazione: ecco allora che anche i figli vengono indottrinati in maniera “subliminale”.

Quanto è stata importante per la sua azienda?

Fondamentale. Oltre che per Clemente Candido, che nel 1859 ha fondato l’azienda e di cui conosco poco la storia familiare, anche per le quattro generazioni successive, sino a me, posso garantire che il lavoro di squadra tra i Candido e le rispettive mogli, sempre presenti in azienda, è stato determinante: Rosina per il marito Achille, Clara per Carlo, mia madre Adriana per mio padre Bruno ed ora Anna Chiara per me sono state determinanti nel portare avanti il successo dell’azienda. Spesso mi chiedo se siamo stati tutti fortunati a trovare delle mogli così brave o se invece abbiamo sviluppato un’inconsapevole capacità di selezione…La nostra peraltro è una famiglia “allargata”: il fatto che a gestire l’azienda sia sempre stata la stessa famiglia, figlio dopo figlio, e che la grande maggioranza dei nostri collaboratori abbia iniziato a lavorare con noi tra i 16 ed i 25 anni di età, arrivando sino alla pensione, ha fatto si che la nostra diventasse davvero una grande famiglia.

In cui ognuno sente l’azienda come “sua”?

Ruotiamo tutti intorno a questa azienda ed operiamo tutti per il suo bene, consapevoli che altri lo hanno fatto prima di noi e che altri ci auguriamo lo facciano dopo. Il nostro punto di forza non sono i prodotti che vendiamo, i locali che ci ospitano, ma il senso di appartenenza ed il bene che tutti vogliamo all’azienda; questo lo percepiscono anche i clienti che, a loro volta, si sentono parte di questa famiglia. Dopo 160 anni e tante generazioni di clienti e collaboratori Candido è un patrimonio della comunità e noi titolari ne siamo gerenti pro tempore.

Perché siamo così ostinati a fare tutto in famiglia? Abbiamo paura dei manager esterni?

Fondamentalmente vedo tre ragioni. Innanzitutto, la diffidenza verso gli estranei ci porta a fidarci più dei nostri familiari o, al limite, ad affidare i ruoli chiave a persone cresciute all’interno dell’azienda, piuttosto che a manager che vengono dall’esterno. In secondo luogo, le dimensioni delle nostre aziende da un lato richiederebbero la presenza di manager ma dall’altro, spesso, non consentono di destinarvi le necessarie risorse. In ultimo, ma non meno importante, il nostro territorio non offre una grande offerta in tal senso; solo ora, fortunatamente, tanti ragazzi che in passato sono stati costretti a lasciare il meridione per trovare lavoro altrove ora hanno il desiderio di tornare, offrendo alle aziende locali la loro professionalità.

L’ingresso in azienda di mia moglie Anna Chiara è stato determinante. Siamo complementari

E tutto ciò è un bene o un male?

La mancanza di manager in molti casi agevola il cambio generazionale, in quanto gli imprenditori sono portati ad affidare quanto prima le aziende ad i propri figli, ma ha
il grande svantaggio di impoverire la cultura aziendale in quanto l’apporto di idee, visioni e professionalità nuove è demandato solo alla generazione successiva, impregnata della cultura dei genitori. In tal senso ritengo fondamentale far fare ai figli che volessero entrare in azienda un percorso di formazione e soprattutto esperienze lavorative all’esterno, che li arricchiscano: valori antichi e idee nuove.

Lei si è sentito obbligato a portare avanti il nome e l’attività imprenditoriale o lo ha fatto con piacere?

Da ragazzino avrei voluto fare altro, lavori più avventurosi che a quell’età potevano sembrare più entusiasmanti. Quando arrivò il momento di scegliere l’università, non avendo le idee molto chiare ed essendo figlio unico, spinto dal senso di responsabilità e senza grande entusiasmo, optai per Economia e Commercio, ritenendola la scelta più razionale.
Non fu facile e non mi piacque, tanto che, dopo un anno in cui conseguii pochi risultati, mio padre mi pose davanti ad una scelta: impegnarmi a laurearmi entro quattro
anni o abbandonare l’università e scegliere un percorso formativo fatto di periodi lavorativi in aziende del settore alternati a corsi brevi legati al management, al marketing ed alla gestione aziendale. Non ci pensai due volte e decisi per questa seconda strada. La scelta fu corretta perché man mano che mi addentravo in questo mondo la passione e l’entusiasmo cominciarono a farsi strada: qualunque lavoro può piacere ed appassionare se lo si fa con entusiasmo e motivazione.

E poi come fu il suo ritorno?

Quando dopo un paio di anni entrai in azienda trovai questa grande famiglia che mi accolse nella maniera migliore e con il tempo il senso di appartenenza e le soddisfazioni trasformarono quella che sentivo più come una grande responsabilità in piacere, passione ed orgoglio. L’ingresso di mia moglie Anna Chiara, avvenuto pochi anni dopo, è stato quindi determinante: abbiamo la fortuna di essere complementari, lei più incline alla parte creativa ed io agli aspetti gestionali, sempre allineati sulla visione dell’azienda riuscendo a conciliare serenamente il lavoro e la vita privata.

Sperate che le vostre figlie entrino in azienda oppure preferireste che facessero un altro percorso e un’altra vita?

Ovviamente mi piacerebbe che quest’azienda avesse un futuro e che lo avesse con una persona di famiglia, ma da padre il desiderio più grande è che le mie figlie possano vivere una vita serena e ricca di soddisfazioni. Come ho detto prima, io ho intrapreso questa strada non del tutto convinto, ma poi si è rilevata per me la scelta migliore.
Potrebbe essere simile per una o più di loro, ma chi lo può dire? Cristiana ha fatto una scelta differente e seguendo la sua passione, dopo aver conseguito una laurea in Advertising alla UAL di Londra, è già entrata nel mondo del lavoro, con grande orgoglio da parte nostra. Claretta, la seconda, vorrebbe occuparsi dell’azienda ed è all’ultimo
anno di Fashion Marketing and Communication all’Istituto Europeo di Design di Milano; Adriana, di 14 anni, ha ancora tempo per decidere. L’importante è che qualunque scelta facciano, la facciano con entusiasmo, passione e coerenza.

Ritengo fondamentale che i figli facciano esperienze lavorative all’estero prima di entrare in azienda: valori antichi, idee nuove

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