Classe ’89, compositrice e musicista salentina di Supersano, piccolo centro in provincia di Lecce, Agnese Contini nella vita è anche una logopedista, professione a cui si avvicina dopo gli studi scolastici a causa di continui problemi alla voce. La sua formazione musicale comincia da bambina, quando al rientro da scuola trascorre i suoi pomeriggi ad ascoltare la sorella maggiore studiare il pianoforte e i vecchi vinili di Chopin, Debussy e Mozart. All’età di 11 anni inizia a suonare da autodidatta la chitarra acustica del padre; plasma la sua ricerca musicale con i dischi dei Beatles (John Lennon principalmente), la chitarra brillante e orchestrale di Brian May nelle musiche dei Queen. Successivamente inizia a studiare chitarra classica accompagnata sempre dai suoi problemi di voce, motivo per cui decide di voler studiare logopedia, la voce e le sue patologie. Si specializza in voce artistica; cura e lavora tantissimo sulla sua voce, riprende a suonare e inizia anche a comporre, sentendosi a suo agio nei solo per chitarra acustica fingerstyle.
La sua musica diventa un modo per raccontare se stessa e ciò che vive, le sue riflessioni sul mondo e la società; il suo modo di suonare è una ricerca continua di nuove sonorità, ma soprattutto una strada per comunicare con la gente. Compone così “Dinamiche di volo”, il suo primo album strumentale tra il 2020 e il 2021. Ed è da qui, dalla genesi del suo disco d’esordio, che abbiamo voluto iniziare questa intervista per poi riavvolgere il nastro per approfondire il suo percorso artistico e la visione che lei ha della musica.
Quando, come e perché nasce l’album “Dinamiche di volo”?
Il magma primordiale, anche a livello emotivo, è nato durante il primo lockdown che è stato un periodo difficile e particolare per tutti noi. Ma ciò che mi ha portato a dare origine alle tracce che vanno a comporre l’album è stato il volere fare una riflessione sulla vita, su quanto microscopici e vulnerabili siamo davanti all’universo. E la pandemia ce lo ha dimostrato una volta di più. Poi ho voluto far mia la metafora del volo e delle sue dinamiche come possibilità per l’essere umano di andare oltre se stesso per vivere meglio. L’album racconta la speranza, il coraggio di credere nei propri sogni e nei propri obiettivi, l’importanza di saper vivere il presente e il modo in cui si investe il proprio tempo, la capacità di attendere (ormai misconosciuta in una società che divora qualsiasi cosa con rapidità), la bellezza della semplicità, la fiducia in noi stessi e infine la leggerezza (non superficiale) come ribellione alla pesantezza della vita.
C’è un fil rouge stilistico e delle influenze che percorrono i brani dell’album?
C’è la ricercatezza, anche spirituale, delle musiche di George Harrison, ma anche le accordature aperte usate da Nick Drake e Jimmy Page, oltre alle sonorità blues, country e celtiche di John Butler e Steph Strings. Questa è la musica che mi piace, che ho sempre ascoltato e che ha finito con l’influenzare la mia scrittura.
Riavvolgendo il nastro, le viene in mente un momento preciso in cui ha capito che la musica sarebbe diventata la sua strada?
La passione è nata quando ero piccolissima grazie a una famiglia che sin da bambina mi ha immerso in un ambiente dove l’ascolto musicale e lo studio erano delle presenze costanti. Non c’è stato però un momento preciso in cui ho capito che la musica sarebbe potuta essere la mia strada. L’ho sempre amata, ma è stata e continua ad essere un qualcosa che ho cercato o che mi ha cercata. Per un periodo mi sono allontanata da lei per completare il percorso accademico e laurearmi in logopedia, ma ha continuato a urlare forte dentro
di me, tant’è che dopo l’università questa lontananza non sono più riuscita a gestirla e mi sono definitivamente resa conto che era qualcosa che dovevo e volevo portare avanti. E così è stato. Fondamentalmente è un qualcosa che cerco in ogni momento. Tornata a casa dopo il lavoro sento come la sensazione che sto per iniziare una seconda parte della vita che è imprescindibile ed è legata profondamente alla musica.
In che modo è riuscita a portare avanti e fare coesistere l’attività nel campo musicale con quella della logopedia?
Ho cercato un appiglio che mi con- sentisse di portare avanti entrambi. L’ho trovato nella componente vocale che è sempre stata qualcosa che mi ha richiamata, perché ero coinvolta in prima persona per via di problematiche alle corde vocali avute da piccola. Anche nel caso della logopedia, l’interesse era legato al bisogno di dare delle risposte a delle domande personali. L’aggancio poi è nato con la specializzazione in vocologia artistica, che riguarda tutta la gestione della voce nell’ambito artistico, non solo nel canto ma anche in quello teatrale e del doppiaggio. Poi la musica di pari passo è venuta fuori nell’aspetto più compositivo, perché fondamentalmente non ho mai smesso di studiare sullo strumento.
Dove nasce e come si sviluppa il suo processo creativo?
Sicuramente parte tutto dalle emozioni. Alcune di esse sono legate al periodo in cui mi trovo a comporre e allo stato d’animo che sto attraversando in quel dato momento. Il ché stimola tantissimo le mie sonorità. Poi presto molta attenzione a ciò che mi porta a riflettere su qualcosa, qualcosa che magari mi accade o vedo giornalmente e che una volta immagazzinato e codificato cerco successivamente di tradurre in musica. Il mio processo creativo s’innesca e si sviluppa il più delle volte da queste due componenti, ossia le emozioni da una parte e l’osservazione del quotidiano dall’altra.
Esiste un legame tra la sua musica e la terra dalla quale proviene? Cosa c’è della Puglia nelle sue composizioni e nel suo essere un’artista?
Anche se musicalmente parlando, per quanto concerne lo stile e le influenze, mi sento molto distante dallo scenario pugliese, tuttavia ci sono delle tracce nel mio album, tra cui “Il coraggio di Amelia”, che dal punto di vista delle sonorità rievocano moltissimo la natura selvaggia e le campagne ormai purtroppo prive di ulivi della mia terra. In generale passeggiare in quei luoghi mi piace tantissimo perché mi trasmette quell’energia per potermi concentrare e di conseguenza comporre. Forse sta in questo il legame.
Cosa prova quando suona e che valore ha per lei la musica?
In primis commozione, ma anche una grandissima sensazione di libertà, quella di potere esprimere al meglio quello che sono. La musica riesce a darmi un senso di rigore e d’impegno che altrimenti non avrei, dove per impegno però non intendo un qualcosa che devo necessariamente fare, bensì qualcosa che faccio per stare bene io e per ritrovarmi. E poi c’è lo stupore, quello di scoprire cose di me che non conoscevo o non credevo mi appartenessero. Ho capito ad esempio che sono molto più coraggiosa di quello che penso, ma anche che sono sempre più alla ricerca della semplicità. Spesso ci complichiamo troppo la vita e ci perdiamo dietro cose che magari sono abbastanza futili, ma che finiscono con il prendere il sopravvento su ciò che invece è utile, necessario o che ci fa veramente bene. Questo perché un po’ noi ci creiamo delle routine e un po’ è la società ad influenzarci.
Si tratta di un percorso di scoperta e di presa di coscienza che non accade solo quando mi esibisco davanti a un pubblico, ma anche nei momenti più intimi mentre provo o compongo.
A proposito di emozioni, cosa spera di comunicare e che arrivi a chi ascolta la sua musica?
In qualche modo nelle tracce che compongo e nei temi che tratto c’è anche molto della mia vita, delle cose che mi piacciono, degli obiettivi che cerco di raggiungere e che non ho ancora raggiunto. Di conseguenza spero che chi sta dall’altra parte e che ascolta i miei brani arrivi ad immedesimarsi. Allo stesso tempo, essendo la mia musica prevalentemente strumentale, quindi priva di parole, spero anche che riesca a suscitare emozioni differenti dalle mie.
Quali sono i prossimi passi e che tipo di upgrade avranno la sua musica e il suo percorso artistico?
Parallelamente alla chitarra ho iniziato a studiare anche il banjo, a riprova della fascinazione che ho nei confronti degli strumenti a corda. Dal punto di vista delle sonorità è molto terreno e mi piacerebbe introdurlo nelle prossime produzioni discografiche, affiancandolo alle chitarre,
agli archi e all’utilizzo di catene ed effetti, mantenendo però uno sguardo sempre rivolto all’espetto più strumentale e non meramente effettistico. Sto cercando di crescere da un punto di vista tecnico e il banjo in tal senso mi sta aiutando tantissimo. Mi sta in qualche modo aprendo degli spiragli sonori molto diversi che potrebbero avere un ruolo importante nel prossimo disco.
Testo di Francesco Del Grosso
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